Secondo una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quando un’attività economica viene chiusa, l’eccedenza IVA maturata nel periodo precedente non può essere riportata a beneficio del contribuente se l’impresa, a distanza di tempo, decide di riaprire i battenti. La pronuncia, relativa a un caso nato in Portogallo, conferma che gli Stati membri possono pretendere che il credito venga richiesto come rimborso entro tempi stabiliti, senza consentire che tale surplus fiscale sia “conservato” indefinitamente per poi essere riutilizzato in un futuro incerto. La logica è evitare che l’IVA non detratta si trasformi in una sorta di “credito perpetuo”, facendo emergere situazioni potenzialmente distorsive. Questo orientamento, che non risulta in contrasto con i principi di equivalenza ed effettività sanciti dalle norme dell’UE, sottolinea la necessità di armonizzare l’esercizio del diritto alla detrazione con la continuità effettiva dell’attività economica.
Lo scenario normativo e il caso concreto esaminato dalla Corte di Giustizia UE
Il quadro normativo a cui fa riferimento la Corte è essenzialmente quello delineato dalla Direttiva 2006/112/CE, che disciplina il sistema comune d’IVA all’interno dell’Unione. Questa direttiva impone ai soggetti passivi di detrarre l’imposta sul valore aggiunto nel momento in cui il diritto alla detrazione sorge, collegandolo alle operazioni effettivamente realizzate nell’ambito di un’attività economica in corso. Nel caso esaminato, un’impresa portoghese aveva chiuso la sua attività nel febbraio 2015, risultando al termine di quell’esercizio con un’eccedenza IVA. Invece di richiedere per tempo il rimborso, l’azienda aveva atteso e, a maggio 2016, aveva deciso di riavviare l’attività economica, sperando di utilizzare il credito precedente come se nulla fosse cambiato. L’amministrazione finanziaria portoghese aveva però negato questa possibilità, ritenendo che i termini per ottenere il rimborso fossero ampiamente scaduti e che la riapertura non potesse “riattivare” l’eccedenza pregresse, come se fosse rimasta in letargo.
Questa situazione ha portato a un contenzioso che, risalendo la catena dei ricorsi, è giunto fino alla Corte di Giustizia UE. L’impresa contestava la normativa portoghese, considerandola lesiva dei principi comunitari, in particolare dell’equilibrio tra il diritto alla detrazione dell’IVA e le condizioni di effettivo esercizio dell’attività. L’argomentazione tendeva a sostenere che l’eccedenza maturata e non ancora utilizzata, in quanto legata alla sua sfera economica passata, dovesse poter essere traslata al momento della ripresa dell’impresa, senza alcuna decadenza.
La Corte di Giustizia, tuttavia, ha ribadito la natura limitata nel tempo del diritto al rimborso, chiarendo che tale diritto non può esistere indipendentemente da un legame immediato con la realtà commerciale corrente. L’IVA, concepita come un’imposta neutrale, è destinata a gravare soltanto sul consumatore finale, mentre il soggetto passivo dovrebbe esercitare il proprio diritto alla detrazione nel periodo stesso in cui matura, oppure entro i termini fissati dallo Stato di riferimento. Se questa finestra temporale non viene rispettata, il diritto scompare, e non può “riemergere” come se l’azienda non avesse mai chiuso. Il termine entro cui esercitare il diritto al rimborso non è considerato lesivo del principio di equivalenza, poiché trova applicazione in modo uniforme per tutti i contribuenti e si allinea alle modalità previste per altri diritti simili, ad esempio nel contesto di altri tributi. Non è neppure considerato violare il principio di effettività, dato che non rende impossibile o eccessivamente oneroso per il soggetto passivo esercitare tempestivamente i propri diritti. L’amministrazione finanziaria locale aveva predisposto finestre temporali abbastanza ampie per intervenire, e il contribuente che non le rispetti non può pretendere in seguito di recuperare quel credito.
Il ruolo della continuità dell’attività economica
Un elemento centrale nella decisione dei giudici europei è la nozione di continuità dell’attività economica. L’IVA, come imposta sul valore aggiunto, presuppone che vi sia una catena ininterrotta di operazioni che generano debiti o crediti d’imposta. Nel momento in cui l’impresa chiude, questa catena si interrompe, e con essa anche la possibilità di mantenere indefinitamente crediti non utilizzati. Il soggetto passivo, se intende salvaguardare il proprio credito, deve pertanto richiedere il rimborso entro i termini previsti. Non può attendere di riprendere l’attività e solo a quel punto pretendere di utilizzare un surplus legato a un passato ormai chiuso. Il ragionamento è lineare: la detrazione è concepita per garantire neutralità al meccanismo dell’IVA, permettendo all’impresa di non dover sopportare l’onere del tributo quando la merce o il servizio viene fornito a terzi. Tuttavia, se l’azienda non è più attiva, non vi è più alcun costo fiscale da neutralizzare. Gli importi di IVA non detratta non possono trasformarsi in una sorta di “credito eterno”, poiché questo comprometterebbe la razionalità del sistema, alimenterebbe incertezze e potrebbe aprire la strada ad abusi.
Si immagini il caso di un professionista che cessa l’attività con un credito IVA di notevole importo, ad esempio 30.000 euro. Se non richiede il rimborso entro i termini, e dopo alcuni anni sceglie di riavviare la stessa attività, non dovrebbe poter scontare quel credito come se la sua posizione contributiva fosse rimasta sospesa in attesa di tempi migliori. Questo garantisce una maggiore chiarezza e fornisce certezze sia al contribuente – che sa di dover agire entro un determinato orizzonte temporale – sia alle autorità fiscali – che sanno di non dover affrontare rivendicazioni tardive.
Conclusioni e riflessi per il contribuente
La decisione conferma che il diritto alla detrazione dell’IVA non è un diritto assoluto, ma condizionato al rispetto di termini e condizioni stabiliti dalla legislazione nazionale, purché in linea con la normativa dell’Unione. Rispetta i principi dell’UE, poiché non trasforma le regole sul rimborso in un ostacolo insormontabile, ma in un semplice termine decadenziale da considerare con attenzione. Un sistema tributario efficace ha bisogno di tempi certi e di una stretta connessione tra operatività e applicazione delle norme fiscali. La pronuncia della Corte di Giustizia non fa altro che ribadire l’esigenza di simmetria tra realtà economica e diritti fiscali. Diventa così chiaro per i soggetti passivi che, cessata l’attività, non è possibile “conservare” crediti IVA per utilizzarli a distanza di anni, e che la ripresa dell’impresa non legittima automaticamente la riesumazione del credito. L’obbligo di rispettare i termini per richiedere il rimborso non è una vessazione, bensì un elemento di certezza e di trasparenza del sistema.