L’introduzione dell’IRES premiale al 20% ha aperto diversi interrogativi per chi desidera sfruttare questo beneficio, introdotto dalla Legge di Bilancio 2025 con l’intento di premiare chi reinveste gli utili in attività innovative e si impegna a rafforzare la propria forza lavoro. Di seguito proponiamo una panoramica puntuale su come funziona la nuova aliquota agevolata, mettendo in luce il ruolo dell’utile 2023, l’importanza degli investimenti tecnologicamente avanzati e le possibili criticità per le società che, per vari motivi, potrebbero non rientrare a pieno nella misura.
Che cos’è l’IRES premiale al 20%
L’imposta sul reddito delle società, normalmente al 24%, viene ridotta al 20% per il solo periodo d’imposta 2025. Questo vantaggio si ottiene rispettando precise condizioni legate al reinvestimento degli utili e all’aumento di posti di lavoro con contratti a tempo indeterminato, come disposto dalle norme inserite nella Legge di Bilancio. Lo scopo palesato dal legislatore è promuovere la competitività delle imprese, incentivando acquisti in beni 4.0 e 5.0 e stabilizzando il personale dipendente in modo duraturo.
Il ruolo dell’utile 2023
La novità più rilevante è che, per calcolare la quota minima di investimenti necessari, la legge non guarda soltanto all’utile del 2024, ma fissa un ulteriore parametro basato sull’utile dell’esercizio che si chiude al 31 dicembre 2023.
In sostanza, chi vuole usufruire del 20% d’imposta deve:
- Accantonare almeno l’80% del risultato positivo conseguito nel 2024 in un’apposita riserva.
- Reinvestire in beni strumentali 4.0 o 5.0 una quota che non sia inferiore al 30% dell’utile 2024 accantonato e, al contempo, non sia inferiore al 24% dell’utile del 2023.
Se l’azienda ha registrato utili nel 2023, si applicherà dunque questa seconda soglia di controllo (24% dell’utile 2023). Se l’utile risalente al 2023 è assente, oppure la società risulta costituita nel 2024, potrebbe non esserci un parametro di confronto di quell’anno, escludendo di fatto la nuova impresa dalla misura agevolativa, almeno in base all’interpretazione letterale normativa in attesa di chiarimenti ufficiali.
L’accantonamento dell’80% dell’utile 2024
Uno degli ostacoli maggiori è la condizione di dover destinare almeno l’80% del proprio utile 2024 a una riserva creata appositamente. Se la società, entro la chiusura del 2024, non realizza utili o registra una perdita, la possibilità di accantonare la riserva decade, rendendo non applicabile l’agevolazione. Alcune imprese potrebbero cercare di coprire questa mancanza vincolando altre riserve di capitale o di utili pregressi.
L’auspicio è che il decreto attuativo introduca una “clausola di salvaguardia” per coloro che, pur non avendo utili nel 2024, dispongono di diverse risorse patrimoniali analoghe.
Investimenti minimi: 30% dell’accantonamento e 24% dell’utile 2023
Il legislatore esige che i beni acquistati siano di tipo 4.0 o 5.0 e che l’investito minimo non scenda sotto i 20.000 euro. La percentuale da rispettare è duplice: occorre investire almeno il 30% del totale accantonato con riferimento al 2024, ma nello stesso tempo questa quota non deve essere inferiore al 24% dell’utile realizzato nel 2023.
La logica, in questo modo, è evitare che le imprese creino artificiosamente un utile basso nel 2024, così da abbassare l’obbligo di investimento.
L’impatto sull’occupazione e i vincoli temporali
Il godimento del 20% di aliquota si collega anche a un obbligo di incremento reale dell’organico. L’azienda è chiamata a mantenere o alzare il livello medio dei lavoratori dipendenti rispetto agli anni precedenti, con almeno una nuova assunzione a tempo indeterminato. In più, la riserva creata con gli utili 2024 deve rimanere indivisa fino al 31 dicembre 2026. La decadenza del beneficio scatta soltanto se si procede alla distribuzione di quegli utili prima del termine.
Per quanto riguarda l’utilizzo della riserva a copertura delle perdite o per un aumento gratuito del capitale, non emerge alcun vincolo esplicito, almeno secondo la formulazione normativa attuale.
Ipotesi per le imprese di nuova costituzione
Le società costituite nel 2024, non avendo un utile di riferimento del 2023, risultano escluse dalla dimensione dell’obbligo del 24% sul risultato precedente. Le norme, tuttavia, sembrano colpire duramente questa tipologia di società, poiché la mancanza di uno storico di esercizio impedisce di completare le condizioni essenziali previste.
C’è la speranza che il legislatore intervenga, chiarendo se tali imprese possano comunque dimostrare di essere in buona fede e godere dell’aliquota ridotta, oppure se rimarranno completamente escluse.
Esempio pratico
Consideriamo una società che nel 2023 abbia prodotto 500.000 euro di utile e nel 2024 registri di nuovo un utile, ma intenda accantonarne l’80%. Supponiamo che l’azienda sia obbligata a investire il 30% dei suoi utili accantonati del 2024. Però, quella stessa quota non potrà scendere sotto il 24% dell’utile del 2023, cioè 120.000 euro. Se per una qualsiasi ragione il risultato 2024 scende molto, la seconda percentuale diventa il vincolo determinante.
In tal caso, la società dovrà comunque investire almeno 120.000 euro in beni 4.0 o 5.0, così da beneficiare dell’IRES al 20%.
Il prossimo decreto attuativo
La speranza condivisa dall’ambiente professionale è che il decreto di prossima emanazione dipani i dubbi, introducendo regole di dettaglio più chiare. Si ipotizza la possibilità di sostituire gli utili mancanti del 2024 con altre componenti del patrimonio netto, in modo da consentire un adeguato reinvestimento pure a chi, per specifiche ragioni, non ottiene utili nell’esercizio successivo al 2023. Allo stesso tempo, occorrerà verificare se e come le imprese di nuova costituzione potranno o meno accedere all’agevolazione, considerata l’assenza del parametro relativo all’utile 2023.