La questione della presunzione di distribuzione degli utili non dichiarati nelle società a ristretta base azionaria è da tempo oggetto di dibattito e continui ripensamenti giurisprudenziali. Con la recente sentenza n. 21158 del 29 luglio 2024, la Corte di Cassazione sembra aver nuovamente invertito la rotta, tornando su posizioni più rigide nei confronti dei contribuenti. Questo articolo si propone di analizzare nel dettaglio questa complessa tematica, esaminando l’evoluzione giurisprudenziale, le implicazioni pratiche per soci e società, e le criticità sollevate da questa nuova pronuncia.
Il concetto di “ristretta base societaria”
Il termine “ristretta base societaria” si riferisce a quelle società, tipicamente di piccole dimensioni, caratterizzate da un numero limitato di soci, spesso legati da vincoli familiari o di stretta conoscenza. In queste realtà, l’Amministrazione Finanziaria ha storicamente applicato la presunzione che eventuali utili non dichiarati dalla società siano stati di fatto distribuiti ai soci in proporzione alle loro quote di partecipazione.
Questa presunzione si fonda sull’assunto che, in una compagine sociale ristretta, i soci abbiano un controllo diretto e una conoscenza approfondita dell’andamento aziendale, rendendo improbabile che eventuali utili “in nero” non siano stati percepiti da tutti i partecipanti. Tale approccio ha radici profonde nella giurisprudenza tributaria italiana, risalendo a pronunce della Cassazione degli anni ’70 e ’80.
L’evoluzione giurisprudenziale recente
Negli ultimi anni, la Corte di Cassazione aveva mostrato segnali di apertura verso una interpretazione più garantista per i contribuenti. In particolare, alcune sentenze avevano riconosciuto la possibilità per i soci di fornire prova contraria alla presunzione di distribuzione. Tra queste, meritano menzione:
- La sentenza n. 24870/2021, che aveva riconosciuto rilevanza all’estraneità del socio alla gestione societaria come elemento idoneo a contrastare la presunzione.
- La sentenza n. 29794/2021, che aveva valorizzato l’esistenza di dissidi tra i soci come fattore capace di mettere in dubbio l’effettiva distribuzione degli utili occulti.
Queste pronunce avevano fatto sperare in un allentamento della rigidità interpretativa, consentendo ai contribuenti di difendersi più efficacemente dalle contestazioni del Fisco. Si era infatti iniziato a considerare elementi come:
- La mancata partecipazione attiva del socio alla vita societaria
- L’esistenza di conflitti interni alla compagine sociale
- La mancata approvazione dei bilanci
- L’assenza di prelievi o movimentazioni finanziarie sospette da parte dei soci
La nuova svolta giurisprudenziale: la sentenza n. 21158/2024
Con la sentenza n. 21158 del 29 luglio 2024, la Corte di Cassazione sembra aver nuovamente cambiato direzione. Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte afferma che: “L’art. 39, comma 1, lettera d) del D.P.R. n. 600/1973 legittima la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale non può limitarsi a denunciare la propria estraneità alla gestione e conduzione societaria, ma deve dimostrare – eventualmente anche ricorrendo alla prova presuntiva – che i maggiori ricavi non siano stati effettivamente realizzati dalla società, che quest’ultima non li abbia distribuiti, ma accantonati o reinvestiti, ovvero che degli stessi se ne sia appropriato altro soggetto.“
Questa formulazione riafferma con forza la validità della presunzione di distribuzione, ponendo a carico del socio un onere probatorio particolarmente gravoso.
Analisi del caso concreto
La sentenza in esame riguardava il caso di un socio di una S.r.l. che aveva impugnato un avviso di accertamento emesso a seguito di un accertamento di maggior reddito effettuato nei confronti della società. Il contribuente aveva contestato:
- La propria estraneità alla gestione sociale, essendone stato di fatto estromesso;
- L’esistenza di dissidi tra soci, sfociati in azioni giudiziarie;
- La mancata approvazione del bilancio;
- Altri elementi che rendevano improbabile la percezione degli utili occulti da parte sua.
Nonostante questi argomenti, che in passato avrebbero potuto trovare accoglimento, la Cassazione ha ritenuto insufficienti tali prove, ribadendo la necessità di una dimostrazione più concreta dell’assenza di distribuzione degli utili.
Le implicazioni per i contribuenti
La nuova posizione della Cassazione comporta notevoli difficoltà difensive per i soci di società a ristretta base. In particolare:
- Non è più sufficiente dimostrare la propria estraneità alla gestione societaria o l’esistenza di conflitti interni.
- Il contribuente deve fornire prove concrete che:
- I maggiori ricavi non siano stati effettivamente realizzati dalla società
- Gli utili non siano stati distribuiti, ma accantonati o reinvestiti
- Gli utili siano stati percepiti da altri soggetti
- L’onere probatorio diventa particolarmente gravoso, richiedendo al socio di dimostrare fatti spesso al di fuori della sua sfera di conoscenza o controllo.
Esempio pratico
Per comprendere meglio le implicazioni di questa sentenza, consideriamo il seguente scenario.
Mario Rossi è socio al 30% di una S.r.l. familiare. A seguito di un accertamento, l’Agenzia delle Entrate contesta alla società utili non dichiarati per 100.000 euro. Automaticamente, viene notificato a Mario un avviso di accertamento per 30.000 euro di maggior reddito.
Anche se Mario può dimostrare di essere stato estromesso dalla gestione aziendale negli ultimi anni a causa di litigi con gli altri soci, questa prova non sarà più sufficiente. Per difendersi efficacemente, Mario dovrebbe ad esempio:
- Produrre documentazione contabile che dimostri che i 100.000 euro non sono stati effettivamente incassati dalla società
- Provare che tali somme sono state reinvestite in beni aziendali
- Dimostrare che gli altri soci si sono appropriati dell’intera somma a sua insaputa
Appare evidente come queste prove siano difficilmente producibili da un socio non coinvolto nella gestione quotidiana dell’azienda.
Criticità e perplessità
La nuova posizione assunta dalla Corte di Cassazione solleva numerose perplessità e criticità che meritano un’attenta riflessione.
In primo luogo, questa pronuncia sembra ignorare le aperture garantiste delle precedenti sentenze, creando un clima di incertezza interpretativa che mina il principio di affidamento dei contribuenti. Tale discontinuità giurisprudenziale rischia di disorientare sia i professionisti del settore che i contribuenti stessi, rendendo più complessa la pianificazione fiscale e la gestione del contenzioso.
Un altro aspetto particolarmente problematico riguarda l’onere probatorio posto a carico del contribuente, che appare eccessivamente gravoso. La richiesta di dimostrare fatti spesso al di fuori della propria sfera di conoscenza o controllo si avvicina pericolosamente al concetto di “probatio diabolica”, ovvero una prova praticamente impossibile da fornire. Questo squilibrio procedurale rischia di compromettere seriamente il diritto di difesa del contribuente.
La sentenza, inoltre, non sembra tenere adeguatamente conto delle dinamiche reali che caratterizzano le piccole società. In molte realtà aziendali a ristretta base, esistono soci di fatto estranei alla gestione quotidiana o situazioni di conflitto interno che rendono improbabile una distribuzione equa degli utili occulti. Ignorare queste circostanze potrebbe portare a contestazioni fiscali ingiustificate nei confronti di soci minoritari o non operativi, che potrebbero trovarsi a dover rispondere di maggiori redditi mai effettivamente percepiti.
Un ulteriore elemento di criticità emerge dal confronto con il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. 546/1992, che ha introdotto un onere specifico per l’Amministrazione Finanziaria di provare in giudizio le ragioni poste a fondamento delle proprie contestazioni. La posizione assunta dalla Cassazione sembra andare in direzione opposta a questo principio, spostando nuovamente l’onere della prova sul contribuente in modo quasi esclusivo.
Infine, questa interpretazione restrittiva rischia di creare un clima di sfiducia e tensione all’interno delle piccole realtà societarie, incentivando potenzialmente comportamenti difensivi eccessivi o, nel peggiore dei casi, spingendo verso scelte gestionali non ottimali al solo fine di precostituire prove a proprio favore in caso di future contestazioni fiscali.
Conclusioni
La sentenza n. 21158/2024 della Cassazione segna un preoccupante passo indietro nella tutela dei diritti dei contribuenti coinvolti in accertamenti basati sulla ristretta base societaria. L’inversione dell’onere della prova e la difficoltà di fornire elementi probatori concreti rischiano di esporre i soci minoritari o non operativi a contestazioni difficilmente contrastabili.
È auspicabile che la giurisprudenza futura possa nuovamente riequilibrare la situazione, magari con l’intervento delle Sezioni Unite, per garantire un giusto contemperamento tra le esigenze di contrasto all’evasione fiscale e la tutela dei diritti dei contribuenti in buona fede.
Nel frattempo, si consiglia ai soci di società a ristretta base di prestare particolare attenzione alla gestione societaria, documentando accuratamente ogni aspetto che possa risultare utile in caso di future contestazioni fiscali.